Cosa significa “mottainai”?
In giapponese, questa espressione identifica il rammarico per uno spreco: di oggetti, cibo, tempo.
Si può forse dire che è anche il termine che più di tutti sa inquadrare il battito del nostro tempo, dove tutto è disponibile, consumabile, gettabile: in una parola, dimenticabile.
Di questa (dis)umana leggerezza nei confronti delle “nostre cose” ne iniziamo a pagare le conseguenze ora, sul nostro ambiente, sull’aria che respiriamo.
Le soluzioni green però esistono, e spesso sono anche molto più divertenti di quelle a cui siamo abituati.
Perché riciclare?
Per i millennials sarà difficile da immaginare, ma c’è stato un tempo lento in cui l’acquisto di un abito o di un accessorio era preceduto da lunghe riflessioni a tavolino, liste di pro e contro e budgetizzazioni familiari: l’abbigliamento costava tanto e l’obiettivo era farlo durare per molti anni. Era normale avere in casa gli accessori da cucito per ripararli.
Con la rivoluzione industriale, e più avanti con l’avvento del fast fashion, acquistare moda è diventato talmente semplice ed economico che gli abiti hanno iniziato a traboccare dagli armadi – e dalle discariche.
Fortunatamente, grazie all’informazione massiva, e alla crescente consapevolezza che ne consegue, la sostenibilità sta entrando di diritto tra i criteri di scelta dei consumatori, quasi di pari passo con estetica, tendenza e qualità.
Secondo uno studio della Retail Industry Leaders Association (RILA), il 93% dei consumatori in tutto il mondo si aspetta un maggiore impegno da parte dei brand per contrastare i problemi ambientali e sociali.
Come dire: il gesto di acquistare non è più senza significato, ma è programmatico, coerente con il proprio mindset e il proprio stile di vita.
Ecco perché è essenziale adoperarsi per trovare nuove tecnologie e nuovi materiali meno dannosi, recuperare e valorizzare i capi vintage e second-hand, riciclare.
Tra queste soluzioni sostenibili, che spingono verso un’economia circolare piuttosto che lineare – che come una fenice rinasce quindi ogni volta dalle sue stesse “ceneri” – sta sempre più prendendo piede una forma “avanzata” di riciclo: l’upcycling.
Quando è nato l’upcycling?
Il termine “upcycling” è apparso la prima volta nel 1994 in un’intervista all’ingegnere Reiner Pilz di Thornton Kay sulla rivista di architettura Salvo, poi ripreso nel 2003 nel libro di William McDonough (architetto) e Michael Braungart (chimico), Cradle to Cradle (Dalla culla alla culla, edito in Italia da Blu Edizioni), che ne hanno fatto un concetto di ampissimo respiro che abbraccia il design in tutte le sue sfaccettature.
L’idea è offrire molteplici (e potenzialmente eterne) reincarnazioni agli oggetti, facendoli ogni volta tornare alle origini, accompagnandoli insomma non più “dalla culla alla tomba” ma appunto “dalla culla alla culla”.
Facile dunque immaginare le ripercussioni positive che un simile metodo può avere sulla moda, la seconda industria più inquinante al mondo.
Che cos’è l’upcycling?
La differenza tra recycling (riciclo)e upcycling è che, se nel recycling i capi vengono riutilizzati più o meno così come sono, l’upcycling è invece un “riciclo creativo”, che non solo elabora, riadatta e rende utilizzabile un pezzo d’antan, ma gli conferisce anche un valore aggiunto, un fascino e un allure completamente nuovi.
Riciclo creativo: come e perché
Per realizzare un pezzo “upcycled”, è essenziale aggiornarlo, modernizzarlo o destrutturarlo. Ogni abito o accessorio ha infinite interpretazioni possibili, in base a chi decide di reinventarlo.
Il vantaggio più “sfizioso” è che il riutilizzo creativo garantisce al pezzo un’unicità irresistibile. La rivisitazione è per sua natura esclusiva e personale, figlia di una sinergia tra contemporaneità e passato.
Così una semplice t-shirt può diventare interessante con l’applicazione di scampoli di tessuti preziosi, un jeans rovinato può rivivere in un paio di shorts, un maglione scolorito diventa rock con una tintura studiata ad hoc.
Non ci sono limiti: l’importante è mantenersi open-minded, utilizzare materiali di qualità e averne cura.
Upcycling è quindi estetica, sì, ma anche sostanza: uno charme “cerebrale” che appaga l’aspirazione a un lifestyle sostenibile e concede l’esperienza lussuosa di possedere qualcosa di diverso da tutti gli altri.
Da A.N.G.E.L.O. abbiamo a cuore la valorizzazione del vintage da sempre. Per questo ci piace anche dedicare attenzione e creatività al processo di upcycling, per rendere contemporaneo ciò che ha già avuto una sua storia.
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